Strage di Via d’Amelio: depositate motivazioni sentenza

  • 25 Gennaio 2021

Una verità costruita a tavolino forzando le dichiarazioni di falsi pentiti. La conferma del depistaggio dell’inchiesta sulla strage di Via D’Amelio arriva dalla motivazione della sentenza d’appello con cui sono stati condannati per l’attentato al giudice Paolo Borsellino e alla scorta i boss Madonia e Tutino e i finti collaboratori di giustizia Andriotta e Pulci. Una conclusione a cui giunsero anche i giudici di primo grado, che parlarono di uno dei più gravi depistaggi della storia italiana. “L’attività istruttoria compiuta nel dibattimento di primo grado – scrive la corte d’assise d’appello di Caltanissetta che ha celebrato il processo – ha consentito di acquisire elementi in base ai quali ritenere che, fin dall’inizio, le indagini condotte per pervenire all’accertamento dei responsabili della strage hanno subito condizionamenti esterni e indebiti da parte di taluni degli stessi inquirenti che hanno forzato le dichiarazioni dei primi collaboratori di giustizia, in modo da confermare una verità preconfezionata e pre-esistente alle stesse dichiarazioni, pur rimanendo ignote le finalità perseguite”. Il depistaggio ci fu, ma cosa spinse gli investigatori a imbeccare pentiti come Vincenzo Scaratino, Calogero Pulci e Francesco Andriotta resta ignoto. E non è l’unico mistero che avvolge l’attentato. La corte definisce la ricostruzione della vicenda un “mosaico che nel suo complesso continua a rimanere in ombra in alcune sue parti”. Come la “scomparsa dell’agenda rossa e la ricomparsa della borsa del magistrato in circostanze non chiarite nella stanza dell’ex capo della Mobile Arnaldo La Barbera, la presenza di uomini sconosciuti sulla scena del delitto e nell’immediatezza dello stesso” e di una persona estranea a Cosa nostra mentre veniva imbottita di tritolo la 126 usata per l’attentato. Le opacità che ancora rendono poco nitidi i contorni della strage di Via D’Amelio non impediscono alla corte di arrivare a due conclusioni anche di rottura rispetto ad altre pronunce giudiziarie e tesi investigative: la matrice mafiosa dell’attentato in primo luogo e l’assenza di un nesso tra la cosiddetta trattativa Stato-mafia e la morte del giudice. “Gruppi di potere o persone estranee ai clan” potrebbero aver avuto interesse ad eliminare il magistrato. Ma ciò non scagiona i boss dalle loro responsabilità e non lascia dubbi sulla natura mafiosa dell’attentato. E ancora “non sussiste alcuna prova che consente di collegare la trattativa Stato-mafia con la deliberazione della strage di Via D’Amelio”. Una conclusione diametralmente opposta a quella a cui sono giunti i giudici palermitani che hanno celebrato il processo sul patto scellerato che pezzi delle istituzioni avrebbero avviato con i clan. Il delitto Borsellino, ne sono convinti i magistrati nisseni, rientra nella strategia terroristica di Cosa nostra dettata da finalità di vendetta.

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