“Cassarà, Montana e gli altri” nel racconto del questore di Palermo

  • 6 Agosto 2018

Cassarà, Montana, Giuliano, Zucchetto, Antiochia, eroi loro malgrado nella stagione in cui Cosa nostra dichiarò guerra allo Stato,  li ha conosciuti nelle “carte” processuali o nei ricordi dei colleghi anziani. “Sono arrivato a Palermo negli anni delle stragi e alla sezione Catturandi della Squadra Mobile a metà anni ’90.  Pensare che lì aveva lavorato un uomo come Montana, o pensare all’esempio e al sacrificio di Cassarà e di Giuliano ha dato a me e a molti miei coetanei entrati in polizia in quel periodo quella rabbia, quella motivazione in più. Pensare che quel che facevi lo facevi anche per loro, per chi aveva perso la vita per il lavoro era una spinta ulteriore”. Da allora Renato Cortese, calabrese, classe 1964,  di strada ne ha fatta. Nel 1998 diventa dirigente della Catturandi e apre una stagione fondamentale nella caccia ai superlatitanti di mafia, nel 1996 concorre alla cattura di Giovanni Brusca, nel 1997 ottiene la promozione per merito straordinario al grado di commissario capo per l’arresto di Pietro Aglieri, nel 2006 pone fine all’oltre quarantennale latitanza del capo dei capi Bernardo Provenzano e viene promosso al grado superiore per merito straordinario. Già dirigente della Squadra mobile di Reggio Calabria e della Squadra Mobile di Roma, il 30 marzo 2015 diventa direttore del Servizio centrale operativo della Polizia di Stato. Dal primo marzo torna a Palermo, stavolta da questore. “Stiamo parlando di persone straordinarie, di innovatori, di investigatori con un fiuto e una marcia in più – dice nel giorno in cui la polizia ricorda Ninni Cassarà e Roberto Antiochia, trucidati da un commando mafioso il 6 agosto del 1985 a Palermo – Basta pensare che Boris Giuliano (vicequestore ucciso dalla mafia nel 1979), sentito dal Csm, chiese leggi speciali per contrastare la mafia già nel 1977. Poi ci vollero i morti, come Chinnici, per averle.  Lui, Cassarà e Montana erano investigatori geniali e i risultati delle loro indagini sono ancor più straordinari se si pensa ai mezzi di cui disponevano”. “In quegli anni – spiega Cortese –  già intercettare un telefono era una sorta di miracolo. Si lavorava con le fonti confidenziali e il resto erano pedinamenti, servizi di osservazione. Con quello che riuscivi a mettere insieme facevi il rapporto per la Procura. D’altronde i mezzi andavano di pari passo con la società che aveva enormi  limiti. Ora gli strumenti sono diversi ed è diversa anche la sensibilità della società”.

Eppure, nonostante le mille difficoltà Ninni Cassarà riuscì a mappare le famiglie mafiose palermitane e a dar copro al cosiddetto rapporto dei 162 che fu poi alla base del lavoro di Giovanni Falcone e del maxiprocesso.

“Un tratto comune a uomini come Cassarà – racconta Cortese – era la solitudine. Tutto sommato fare antimafia oggi è semplice, perché c’è un contesto dichiarato di antimafiosità. I Cassarà, in quegli anni, negli apparati erano mosche bianche, vivevano nella consapevolezza che erano soli e che non potevano fidarsi che di poche persone, mentre oggi è tutto lo Stato che vuole la lotta alla mafia”.

Da aprile in Questura a Palermo c’è un busto in ricordo di Ninni Cassarà, ucciso davanti all’allora giovane moglie mentre rincasava insieme all’agente Roberto Antiochia, ritornato a Palermo dalle ferie per non lasciare solo il suo capo.

“Palermo oggi – dice il questore – è  certamente diversa. Negli anni in cui sono arrivato  era indifferente, poi ci sono state le stragi ed è diventata una città in guerra, una città che viveva nella paura, impietrita. Il terrore si respirava, c’erano i militari agli angoli delle strade. Poi lo Stato lentamente ha recuperato il suo ruolo, si sono presi i latitanti anche se questo non vuol dire che la mafia è vinta. Cosa nostra va guardata nei suoi 150 anni di Storia, ha avuto cicli diversi di sconfitta e si è ripresa. Se si molla c’è sempre il rischio che una leadership torni a riprendere testa. La guardia deve essere sempre alta: specie dopo le recenti scarcerazioni”.

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