Gaetano Costa: ‘un magistrato lasciato solo’

  • 6 Agosto 2018

Cominciai a conoscere Gaetano Costa sei mesi prima che il 10 luglio 1978 si insediasse come nuovo procuratore di Palermo. Aveva dovuto fare un’anticamera di sei mesi perché il procuratore generale Giovanni Pizzillo non gli aveva concesso il consueto «anticipato possesso» dell’ufficio. Palermo era alla vigilia di una mattanza che avrebbe decapitato le istituzioni con una catena di delitti eccellenti riconducibili a una strategia di sfida aperta allo Stato. Nel 1971 c’erano state già le prime avvisaglie con l’uccisione del procuratore Pietro Scaglione. Ma poi il segnale di allarme era stato sopraffatto dalle retate e dai processi contro alcuni pezzi dell’ala militare della mafia: tra clamori mediatici e inchieste che promettevano tanto e mantenevano poco si era tornati presto alla «normalità». Fino al 1977 quando a Ficuzza era stato ucciso il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo. Poi nel marzo 1978 a Cinisi la mafia aveva fatto saltare in aria Peppino Impastato, un giovane militante di sinistra che sbeffeggiava i capi intoccabili di Cosa nostra mentre ne denunciava traffici e delitti. E il 30 maggio 1978 era stato eliminato a Palermo il boss di Riesi, Giuseppe Di Cristina, un mafioso dal «colletto bianco» che teneva i piedi in due staffe: uno nel sistema di potere regionale e un altro nella struttura di governo della mafia. Era un personaggio così influente e così «rispettato» che per il suo funerale in paese erano stati chiusi anche gli uffici pubblici e la sezione della Dc aveva esposto la bandiera a lutto. Non erano dunque mancati i segnali di un «nuovo corso» che avrebbe aperto una stagione criminale terrificante. Ma la mafia, evidentemente, non era considerata la prima emergenza se un ufficio come la Procura poteva restare per sei mesi senza una testa e senza una guida.

C’era in quella scelta una sottovalutazione fredda e burocratica? La visione miope di un cambio ordinario di poltrone? Una carsica diffidenza ambientale? C’era anche questo, pensammo noi cronisti, ma non era la causa principale di un clima di sorda contrapposizione con cui il procuratore avrebbe dovuto fare i conti. Per il suo passato antifascista e la lotta partigiana in Val Sesia si era subito guadagnato il soprannome di procuratore «rosso»: un comunista che arrivava con idee «rivoluzionarie» sul sistema mafioso e sul suo potere di «intermediazione concreta in ogni attività illecita, tra politica, finanze, banche, cittadino onorato e delinquenza associata ed organizzata». Nei suoi appunti questo profilo, fino a quel momento inedito, della mafia era diventato, tra le alternative possibili, il paradigma più convincente. Quindi lo strumento di analisi più idoneo per ogni strategia di contrasto. Alla capacità di mediazione la mafia univa ora un metodo terroristico che, durante la breve esperienza di Costa come procuratore, avrebbe uno dopo l’altro eliminato i protagonisti di un processo di rinnovamento e di rigenerazione che investiva la politica, il potere giudiziario, gli apparati investigativi e perfino l’informazione. Il 1979 era stato l’anno di svolta. La mafia aveva eliminato Mario Francese cronista di giudiziaria del Giornale di Sicilia, il segretario della Dc Michele Reina, il giudice Cesare Terranova, tornato a indossare la toga dopo l’esperienza parlamentare e la collaborazione con Pio La Torre nella stesura della relazione di minoranza della Commissione antimafia. Ma il 1979 era stato anche l’anno di Michele Sindona, l’uomo che gestiva un impero finanziario inquinato con l’appoggio dei poteri occulti e della mafia siculo-americana. E il 1980 si era aperto con l’assassinio di Piersanti Mattarella, il presidente che voleva portare alla Regione l’aria fresca del rinnovamento mentre a maggio i sicari avevano ucciso a Monreale il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, uno dei più attenti protagonisti delle inchieste antimafia.

E mentre seguiva le tracce di tante storie per ricondurle a una sintesi unificante Costa avvertiva attorno a sé un clima di ostilità più mascherate che dichiarate. Sapeva di muoversi in un pantano pieno di trappole e per difendere la riservatezza di certe inchieste era costretto a parlarne con Rocco Chinnici nel chiuso di un ascensore di servizio che faceva su e giù prima di fermarsi al piano di destinazione, e a discorsi conclusi. Le sue cautele nei rapporti con noi cronisti erano in parte dovute a un carattere schivo e riservato e in parte alla necessità di frenare la diffusione di notizie che potevano avere origini interessate. Questo dovette pensare quando non esitò a promuovere, ora si può dire, giustamente un’inchiesta per capire da quale fonte avevo avuto alcune (scarne) indiscrezioni per descrivere sul Giornale di Sicilia un contesto e un’ipotesi investigativa sull’uccisione di Mario Francese.

L’isolamento di Costa era una condizione da tutti noi chiaramente percepita. Ma nessuno avrebbe mai pensato che potesse esplodere in una forma inquietante in una riunione nella quale si dovevano convalidare i 55 arresti compiuti dalla polizia, dopo l’agguato a Basile, tra le famiglie Spatola-Inzerillo-Gambino, il gruppo mafioso a quel tempo più ammanigliato con il potere politico e più coinvolto nel grande traffico della droga. Tutti i sostituti, tranne Vincenzo Geraci, espressero un dissenso già maturato in un incontro privato, in casa di uno di loro, rispetto alla tesi del procuratore per il quale la convalida avrebbe consentito una migliore verifica delle diverse posizioni.

Costa firmò da solo. I cronisti rimasti nei corridoi della Procura ad aspettare l’esito della riunione lo appresero dagli avvocati a loro volta informati da sostituti “dissenzienti”. Il circuito informativo aveva così prodotto l’esito dirompente che Leonardo Sciascia avrebbe denunciato in una interrogazione parlamentare. Il processo ha chiarito che la firma solitaria sulla convalida degli arresti ha certamente sovraesposto il procuratore ma non era l’unico movente. Costa era infatti l’espressione di una grande «anomalia» che lo accompagnava sin dalla nomina. E «anomala» era giudicata a palazzo di giustizia l’ostinazione con cui si era mosso per rimuovere le inerzie paralizzanti dell’azione giudiziaria e per affondare i colpi nei grandi affari di Cosa nostra con l’idea forte che bisognava cercare nei conti in banca le prove contro la mafia.

Questa svolta non poteva passare inosservata: nasceva da una lettura aggiornata del sistema di potere mafioso e ne coglieva i nuovi caratteri. Il metodo del «procuratore rosso» aveva per provocato, come lui stesso prevedeva, fenomeni di rigetto. Ma la sua eredità non è andata certamente dispersa: attorno a Chinnici stava crescendo la generazione dei Falcone e dei Borsellino, già pronta a riprendere e proseguire l’opera di Costa. Il corso della storia era ormai cambiato ma nel 1980 non tutti l’avevano ancora capito.

di Franco Nicastro

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