L’albero dei tutti

L’impegno e il progetto

Un omaggio a mio zio Giovanni

La mia memoria privata, domestica, familiare più riservata si cuce con quella più ampia e pubblica di tutti coloro che abbiano incrociato il pensiero e l’opera di Giovanni Falcone. Dei fatterelli, degli aneddoti come dei giorni vissuti assieme, entrambi non troppo distanti per età e per formazione umana, non è mio interesse raccontare, evito da anni di rendere al prossimo il patrimonio di affetti che è per me il ricordo di zio Giovanni, non per avarizia emotiva piuttosto direi per giusta gelosia conservativa, per pudore sentimentale.

Voglio però confidare ai lettori, ai tantissimi che hanno partecipato ai progetti della Fondazione Falcone, alle migliaia di giovani studenti che in questi primi trent’anni dalla strage di Capaci hanno incontrato la storia di Giovanni Falcone, che sì un particolare aspetto riservato dell’atteggiamento umano di mio zio voglio renderlo pubblico, in un certo senso spero anzi di mantenerlo vivo. Giovanni Falcone non era ostaggio del suo ruolo, egli viveva pienamente, la professione di magistrato, l’impegno da uomo di legge e di diritto, l’innovatore delle istituzioni democratiche, così come aveva il gusto per la provocazione intellettuale, l’amore per i viaggi ad esempio. Soprattutto voglio ricordarlo con quel sentimento di irrequietezza permanente nei confronti della cultura, verso Palermo e i suoi concittadini. Questa curiosità culturale, il suo interesse per le arti figurative e il cinema, verso la musica e le contaminazioni, credo di poter dire di onorarlo attraverso questo progetto di design sociale: Spazi Capaci + Comunità Capaci è un omaggio al rapporto dinamico, polemico in senso classico, di mio zio con Palermo, con le città complesse in generale, laddove si fatica un pò di più a sentirsi parte di una collettività civile.

Così voglio sottolineare che questo specifico ricorso alle arti figurative, come verso altre forme di espressione culturale, è funzionale per evidenziare luoghi e storie di incontri tra Giovanni Falcone e Palermo, dell’amicizia con Paolo Borsellino e la città complicata che nutriva il loro legame, tracce di ricordi che rischierebbero di divenire ancora più fragili dato il tanto tempo trascorso dai fatti, ancora più addietro di questi ultimi trenta anni dal loro assassinio. La particolare funzione evocativa che solo l’arte può assolvere, perché questa è sempre oltre la lingua e la cronaca, offre anche l’occasione di non rischiare di celebrare i fatti drammatici, la ricorrenza della morte quale occasione cerimoniale senza riuscire a sollecitare alcun pensiero critico, atto diurno di memoria a forma di corona di fiori e grisaglie. All’opposto, l’arte stessa come strumento per esaltare la vita vissuta di scoperte e vittorie civili, di tutti coloro che si sono impegnati oltremodo per la collettività, oltre la pigrizia e l’indolenza del dovere sul lavoro, oltre quel limite che qualcuno può definire eroico e che invece era ed è l’interpretazione definitiva della piena dignità umana offre un panorama di interazioni sociali del tutto inattese.

Infatti, questo prossimo trentesimo anniversario delle stragi mafiose di Palermo è per noi un bivio, da un lato la via breve e dritta della liturgia e l’altra fatta di tornanti ma più appassionante di incontri, di trasmissione di impegno nella vita, attraverso quella pedagogia degli esempi che è per definizione concreta e di prospettiva. Perché trenta anni sono tanti, il rischio di amarcord è in agguato e le testimonianze dirette si fanno, naturalmente e tristemente, più rade. Sono questi i mesi dei tanti anniversari, molto dolorosi, da Capaci e via D’Amelio appunto all’attacco frontale di Cosa Nostra al patrimonio culturale del Paese, con le terribili stragi di via dei Georgofili a Firenze o a Milano con quella di via Palestro, passando per gli attentati di Roma: dolore e memoria ma anche occasione per formulare un appello alla vitalità culturale delle istituzioni, delle imprese e dei più giovani, sperimentando nuovi linguaggi di promozione sociale, animando quella memoria costruttiva che ha già in sé i più fertili semi di futuro, come immagino avrebbe potuto fare piacere ai tanti, anzi a tutti coloro che commemoriamo.

Vincenzo Di FrescoConsigliere e fondatore della Fondazione Falcone

Il colosso fragile

L’opera di Gregor Prugger per la memoria della lotta alla mafia

L’opera di innovazione straordinaria che si è compiuta a Palermo, senza precedenti in questo specifico campo giudiziario, con la costruzione e la riuscita del Maxiprocesso a Cosa Nostra ha rivelato la qualità del lavoro umano di gruppo. Questo insieme variegato, per esperienze e formazione dei singoli componenti, è stato il pool antimafia. Nato nel doloroso percorso rivoluzionario di alcuni magistrati, i primi Costa e Chinnici, entrambi vittime della violenza dei clan ed entrambi ideatori del gruppo nelle indagini antimafia, aveva nella sua forma completa investigatori straordinari, tra questi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Ciò che risultò essere letale per gli equilibri e gli interessi del clan fu lo scambio, la transazione continua di dati, elementi, fatti e circostanze di potenziali ed effettivi crimini tra i magistrati del gruppo di inchiesta: come un albero vive di tutti i suoi rami innalzandosi alla luce, cresce nello sforzo delle radici, così fecero quegli uomini coraggiosi e fuori dal coro. Da sempre mi interessa il senso profondo del lavoro del pool di allora, non tanto nei successi storici di affermazione del diritto costituzionale delle leggi sull’arbitrio, sulla violenza, del ricatto criminale, piuttosto il valore della sovversione delle abitudini consolidate.

Non entro nel merito di un campo, quello giuridico e normativo che non mi appartiene, bensì è nell’antropologia dei sistemi sociali complessi che è concentrata la riflessione costante: può un gruppo ristretto di persone saldamene legate tra loro da vincoli morali di amicizia, lealtà, coraggio, affini seppur diverse per formazione umana ed esperienze, modificare il corso degli eventi storici collettivi agendo con profondità, cura, costanza? Quindi, la storia ci consegna la risposta positiva e il resto che è accaduto in seguito la smentisce.

Le invidie, la diffusione di interessi economici e politici frammisti e conviventi tra parti dell’aristocrazia impiegatizia della Sicilia e le famiglie mafiose, l’ampia zona grigia del sistema di affari tra le cosche e i volontariamente corrotti funzionari deputati ad occuparsi del bene comune, hanno in parte facilitato la collettività a tradire i risultati civili di quello storico pool antimafia.

Restano le conquiste giudiziarie, il patrimonio di conoscenza storica dei fatti e degli equilibri criminali mafiosi, la semplicità dell’architettura della peggiore organizzazione criminale al mondo e dei loro riti folkloristici, la sua penetrazione profonda nei gangli economici del Paese.

La stagione delle stragi è maturata in un quinquennio a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, in una fase di restaurazione profonda degli assetti elettorali ed economici siciliani e, pertanto, romani che ha preso nutrimento nei sentimenti più oscuri nei confronti sia dei magistrati (e più ampiamente degli investigatori, poliziotti e carabinieri compresi) che dei protagonisti culturali e politici capaci di affiancare, nella società, il lavoro degli inquirenti. Per anni il Paese politico ed economico ha vissuto come una rimozione delle proprie collettive responsabilità, di non avere perseguito, nel momento di massima efficacia dello Stato contro la mafia, una via definitiva di lotta senza quartiere all’organizzazione stessa e ai suoi legami più profondi. Il processo culturale di maturazione civile contro le mafie è accaduto spesso fuori dai luoghi istituzionali legislativi, piuttosto si è assistito all’ibridazione degli ambiti civili, le scuole e il teatro, il mondo del lavoro e la letteratura, le aziende e gli artisti si sono ritrovati a mischiarsi, rivisitando e rifondando il pensiero del pool, animando quell’unità di arterie morali in modo straordinario. Il volontariato, i talenti, gli studenti, la scuola, la cooperazione, gli artisti, gli imprenditori più coraggiosi e ampie parti del movimento sindacale si sono mescolati, alleandosi in un nuovo modello politico trasversale, diversificato, a volte apparentemente disgregato, per proseguire il lavoro comune di opposizione civile ai ricatti e all’arbitrio mafioso.

Seguendo queste riflessioni, inseguendo altre e più diverse domande, come, ad esempio, che connotazione dovesse avere un’opera d’arte omnia sulle vittime, su tutte le vittime, che sfuggisse la retorica, la celebrazione, la decorazione moralista. Così la fase progettuale ha rintracciato proprio quell’illusione straordinaria illuministica, trovando un’opera che potesse albergare nella tradizione carsica del manufatto ibrido della storia dell’arte italiana, nel capriccio virtuosistico, supernaturale.

I Medici, con la solita lungimiranza straordinaria in materia di promozione del patrimonio di capolavori, apre gli Uffizi – uffici pubblici dell’epoca – e al loro centro ideale mette la Tribuna.

Questa stanza ottagonale, ancora visitabile, è il primo nucleo del sistema espositivo di una collezione, non è ancora un museo, piuttosto un locale ibrido, capace di contenere ed esporre, grazie alla volontà di Francesco I de Medici nel 1584, un insieme molteplice di opere d’arte e di natura, tra queste alcune “miste”. Dalla Tribuna alla Wunderkammer è passato molto tempo, epoche, poi nell’Ottocento si è giunti all’idea e alla forma del museo moderno, con Denon al Louvre di Parigi. Ma è nell’infinitesimale piccolo, nel guscio d’uovo scolpito, nella conchiglia intarsiata, nel Cristo doloroso crocifisso dove sangue vero e capelli veri si mescolano al legno delle altre parti del corpo del più importante martire dell’umanità, che nasce il concetto concreto di illusorio confine tra il vero e il veridico. Ed è in questo antico scenario poetico, in questa illusione sul confine tra vero e veridico, che Gregor Prugger persegue, storicamente coerente, la sua ricerca artistica.

Così, perseguendo quell’idea di unità, di gruppo, di corallo di esperienze che fu il pool Prugger ha disegnato e iniziato a scolpire il suo capolavoro, rileggendo al contempo la lunga anagrafe delle vittime di mafia: è qui che l’artista trova la forma, la struttura per dirla alla sua maniera. Io voglio ricordare tutti, voglio ricordare tutto, i famosi e i dimenticati da tanti. Prugger è così sempre inatteso, sovversivo, ironico, trovando nel corpo vivo di una grande pianta di Pilat, un albero da abbattere per fare legna, perseguendo la soluzione iniziale verso l’impossibile: riuscire a raccontare con una sola opera la moltitudine dei giusti, dei tanti troppi assassinati nella loro e nostra lotta contro i clan. Sono oltre mille i morti ammazzati dalla mafia, di questi 122 bambini.

Un albero non sarebbe bastato, con perfetta consapevolezza sin dal principio, così in effetti la pianta non bastò: l’opera attuale, inaugurata nel trentesimo anniversario della strage di Capaci, è un quindi un inizio. Mai era stata tentata la rappresentazione collettiva scultorea dei ritratti dei caduti, nell’atto di camminare, di andare ancora, ciascuno realizzato con cura antica, taluni caratterizzati dalla fisionomia realistica, altri accennati per caratteristiche sociali, altri del tutto immaginati: un unico oggetto assoluto e simbolico, colossale, come una resurrezione laica plastica cooperativa, una gemmazione in tutte le stagioni, un retablo tuttotondo, dove i caduti che hanno scelto di combattere, anche quei bambini che assassinati sono morti innocenti più innocenti degli altri, concorrono a far rinascere l’Idea seppur da una pianta recisa. 

L’albero dei Tutti è il più grande ibrido dell’arte contemporanea, una meta di pellegrinaggio laico. Sono stati diversi i visitatori, anziani che ricordano bene l’epoca delle bombe e delle stragi, giovani, moltissimi stranieri, tanti bambini dei quartieri più antichi del centro storico che raccogliendosi nella penombra dello Spasimo, sotto il cielo cobalto di Palermo, hanno accarezzato le statue al termine di ciascun ramo. Alcuni hanno baciato i propri eroi raffigurati nel legno, tenendoli nel palmo, come statue della devozione popolare, come fossero Madonnine, piccoli Cristi, altri li hanno fotografati come si fa coi presepi napoletani, alcuni si sono sdraiati al suo fianco, all’ombra dei suoi rami: ci sono stati numerosi concerti nella grande navata del monumento, centinaia gli spettatori che hanno scelto di sedersi accanto le statue “dell’albero”, così circondandolo.

Adesso l’opera potrà sollevarsi da terra, riprendere il viaggio, trovare altre piazze e altri girotondi di custodi che anziché innaffiarla inutilmente, continueranno a farne la zattera per salvarsi e conservare l’ultimo seme di vita, magari usarla, come nelle antiche raffigurazioni alpine, per aiutarsi a vicenda nel racconto di tutti loro, di questi uomini e queste donne, questi piccoli, che avrebbero preferito vedere come sarebbe andata a finire, contenti della loro battaglia combattuta. 

Alessandro de Lisi, Curatore Generale

 

Formazione 2020

Il XXVIII anniversario
della Strage di Capaci dedicato alla
tutela dell’ambiente dalle attività illegali
delle mafie.

Formazione 2021

Il XXIX anniversario della
Strage di Capaci dedicato alle
infiltrazioni mafiose in Europa e il ruolo
delle istituzioni europee, delle
associazioni e dei singoli cittadini nel
contrasto alle organizzazioni criminali.

Formazione 2022

Il XXX anniversario della
Strage di Capaci dedicato al tema
dell’importanza della memoria che
torna in tutta la sua forza.

Formazione 2023

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